Le Piccole Patrie nell’Italia del Settecento

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MESTIERI E CORPORAZIONI

I GIROVAGHI

Corrado Truffelli

L’emigrazione girovaga, che è stata largamente praticata dalle genti delle valli del Taro e del Ceno nel corso del XVIII e XIX secolo, rappresenta, per le modalità e per i tempi della sua manifestazione, un unicum nella storia della emigrazione italiana; per questo, Marco Porcella ha denominato l’area che sta attorno al monte Pelpi l’area della Commedia. Essa non esaurisce (tutt’altro!) il plurisecolare sciame migratorio che ha caratterizzato quelle valli, ma ne costituisce un aspetto particolare, perspicuo.
Come mostrano i passaporti che si riproducono, tratti dal Fondo Patenti, busta 68, dell’Archivio di Stato di Parma, nella seconda metà del Settecento, i girovaghi erano soliti percorrere l’intera Europa, dalla Spagna alla Polonia, e l’Italia, dal Lombardo-Veneto al Regno di Napoli, ed anche alla Corsica e alla Sardegna, per esercitare piccoli commerci o per «far vedere animali selvatici»: orsi, cammelli, dromedari, scimmie…
Che, a Bedonia, nel XVIII secolo, si disponesse di tali animali, necessariamente provenienti dall’Asia Minore o dal Nord Africa; che persone analfabete e in possesso soltanto di conoscenze geografiche tramandate a memoria, fossero in grado di affrontare simili viaggi, dimostra come tale processo migratorio si fosse sedimentato attraverso lunghissime esperienze, certamente plurisecolari.
Di rado i girovaghi si muovevano da soli; spesso lo facevano con soci, compagni, familiari (moglie, figli, fratelli); le assenze duravano mesi, anni…
Questa capacità di «andare per il mondo»; di intessere rapporti con lontani mercati per approvvigionarsi degli animali; di vincere, andando esclusivamente a piedi, distanze di migliaia di chilometri, viaggiando anche nei mesi invernali e varcando le Alpi; di superare problemi di lingua, di moneta, di regimi, di turbolenze politiche e sociali; capacità tramandata di generazione in generazione, non può non stupire.
Al tempo stesso non si può non chiedersi che cosa significasse, in realtà, partire da un villaggio dell’Appennino portando in spalla un barile di inchiostro, evidentemente auto-prodotto sfruttando il tannino dei castagni e delle querce, e arrivare, per smerciarlo, fino alle Fiandre: quale vantaggio se ne poteva trarre, come si potevano trovare i modi e i mezzi per sopravvivere.
Sono molti gli interrogativi che questi passaporti suscitano; lasciano, però, intravedere una inesausta volontà di sottrarsi alla miseria della vita locale, di «ingegnarsi», di tentare, forse, come ha scritto Marco Porcella, anche «con l’arte e con l’inganno», di «procacciarsi il Vitto» e qualche risparmio da portare a casa per il ritorno, magari la spavalderia di poter dire: «neppure Sua Maestà ha visto ciò che abbiamo visto noi», senza fermarsi al pensiero che una mano pietosa dovesse un giorno comunicare, come accadde, fra i tanti, per Antonio Boini, di Masanti, venditore di inchiostro, che era morto: a Pécs (Quinque Ecclesiae), in Ungheria, per il morso di un cane.

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